Talking to – Francesca Vittorelli

Francesca Vittorelli è stata uno dei quattro architetti selezionati per intraprendere l’esperienza del G124, il gruppo di lavoro del senatore Renzo Piano per promuovere la rigenerazione e il rinnovo delle periferie urbane. Caso studio: Milano, quartiere Giambellino.

Needle: Parlaci della tua esperienza nel gruppo di lavoro G124

Francesca: E’ stata un’esperienza incredibile. Forse è stata più costruttiva dal punto di vista umano che professionale, perché professionalmente essendo un esperimento, essendo che nessun ci ha detto cosa dovevamo fare e come, è stato un improvvisare man mano, sbagliare tanto, e andare anche in direzioni giuste. Però conoscere persone, vedere cosa succede, i piccoli miracoli in periferia e lavorare con un genio come Piano è stato pazzesco. E il tutto comincia in modo assolutamente misterioso: ho risposto ad un annuncio pubblicato da uno dei tutor che cercava architetti laureati in restauro architettonico. Il tutor era Marco Ermentini, famoso restauratore, che voleva valorizzare il patrimonio architettonico del Giambellino in quanto quartiere popolare. Solo dopo scopro che avrei lavorato per Renzo Piano!

Successivamente, dopo esser stati reclutati ci hanno chiesto di scegliere l’area sulla quale volevamo lavorare e noi abbiamo spinto per lavorare tutti nella stessa area (non come l’anno precedente) in un unico gruppo e in unica periferia per avere un risvolto progettuale più spiccato, proprio perché il lavoro è stato diviso in modo diverso per ottenere risultati diversi.

Needle: Come mai Milano e perché avete scelto di lavorare proprio sul Giambellino, considerate le tante periferie bisognose di Milano?

Francesca: Abbiamo scelto Milano perché era l’anno dell’Expo, dunque anche per mandare un po’ un messaggio, visto che Milano in quell’anno ha pensato anche ad altro. Abbiamo scelto il Giambellino perché fra tutte le periferie che abbiamo visto era quella “migliore” anche dal punto di vista strategico. Un po’, ci sembrava quella dove potevamo lavorare meglio, perché, immagina, vai ad intervenire in un posto che non conosci, in via del tutto sperimentale e senza mai aver affrontato il tema dell’architettura sociale, e soprattutto avendo solo un anno a disposizione, in cui devi far subito i due mesi di ricognizione, poi c’è la pausa estiva, a novembre devi aver finito e devi per mandato aver fatto qualcosa, aver lasciato un segno; quindi se ti scegli un caso da “mani nei capelli” fallirai. Un po’ anche perché è un quartiere pieno di problemi, ma con un grande potenziale data la conformazione degli spazi a dimensione umana, la densità abitativa, il numero elevato di associazioni presenti, abbiamo pensato potesse andar bene.

Needle: Com’è stato il vostro approccio al quartiere?

Francesca: È stato complicatissimo perché tu vai lì, da gente che si fa il mazzo da anni per migliorare il quartiere a dire “Ciao! Mi manda Renzo Piano: non so nulla di periferia, ma ci penso io!”. Insomma, un biglietto da visita pessimo. Lo scoglio iniziale è stato forte: c’era tanto pregiudizio. Poi, dopo un pò, si sono abituati anche perché io ero sempre o al Giambellino o in studio a “tradurre” ciò che avevo capito. E così abbiamo cominciato e succede che, per forza di cose, quando arrivi in un quartiere del genere, devi metterti nelle mani di qualcuno. Avendo individuato come fulcro della rigenerazione il mercato, la società che ci ha un po’ interfacciato è stata Dynamoscopio, un’associazione culturale che si occupa di rigenerazione urbana. Perché loro? Perché il mercato dopo esser sopravvissuto alla demolizione nel 2010, ha dovuto creare un consorzio per mantenerlo e il comune ha richiesto esplicitamente che almeno il 10% dello spazio del mercato fosse destinato ad un’associazione culturale sociale ed è lo spazio che viene gestito da Dynamoscopio.

Il nostro approccio al Giambellino inizia dunque passando da Dynamoscopio che sembrava la cosa migliore, visto che non conoscevamo il quartiere.

Needle: e il rapporto con l’amministrazione com’è stato?

Francesca: Secondo me, se sei uno studente o un libero professionista è più facile lavorare con l’amministrazione. Nel nostro caso è stato un pò “handicappante” esser stati mandati dal Senato, perché eravamo visti come un’istituzione e in questo senso noi non potevamo nemmeno lavorare con l’amministrazione. Quindi il nostro rapporto con gli enti pubblici che fosse ALER o il Comune di Milano, è stato sempre controllato perché il progetto era nostro alla fine.

Detto questo, il nostro lavoro si doveva integrare di più con quello della pubblica amministrazione, ma capisco che ci fosse un certo grado di diffidenza. Anche perché abbiamo scoperto solo dopo la nostra esperienza che son stati stanziati 85 milioni di euro per la riqualificazione del quartiere – il quale, dalla costruzione negli anni 30 non ha mai avuto nessun aiuto dal punto di visto economico né da Aler né dal Comune –  e quindi a maggior ragione la nostra presenza era scomoda. Se si guarda il masterplan sul sito vede che hanno attinto un pochino alle nostre idee (riapertura dei cortili), però non hanno fatto un processo partecipativo che si possa dire soddisfacente (neanche il nostro lo era). Inoltre, è un masterplan per grandi opere mentre la nostra idea incentrata sul lavoro bottom-up: il micro intervento, con micro cantiere che va a favorire e valorizzare la micro economia e lo spirito locale.

Needle: quindi come avete sviluppato il vostro progetto?

Francesca: Allora, il quartiere è fatto di tre comparti, con edifici molto rigorosi, orientati tutti nord sud e con una densità elevatissima (saranno circa 6.000 abitanti. Tuttavia, come dicevo prima, la dimensione umana è stata una delle cose che ci ha colpito di più perché gli edifici, per quanto modernisti, non sono superano mai i 4 piani e hanno un rapporto con i cortili interni di 1:1.5, quindi è uno spazio armoniosissimo. Se guardi la planimetria vedi proprio che i cortili sono come dei corridoi che disegnano un viale e portano da via Giambellino a via Lorenteggio dove passano i mezzi di trasporto, quindi sono parecchio comodi. Purtroppo però, una 30 di anni fa, gli inquilini hanno chiesto di chiuderli perché il passaggio delle persone crea diffidenza e quindi si crede che le chiusure difendano. In realtà, creato un accesso (solo uno per cortile) e controllato l’accesso e l’uscita si creano situazioni di enorme degrado: c’è il rack delle occupazioni, c’è prostituzione, c’è il ragazzino che chiede l’obolo al signore perché altrimenti non può tornare a casa. Da qui il tema di riaprire i cortili che è uno dei temi fondamentali del nostro progetto. Nella città, il luogo più sicuro per antonomasia è la piazza, perché è vissuta e c’è tanta gente che guarda e controlla, quindi da riaprire i cortili per creare un percorsi di mobilità dolce per bici e pedoni e collochi al piano terra delle funzioni pubbliche come la portineria, l’asilo di quartiere o la lavanderia di cortile, un internet point, centro anziani che proiettino all’esterno del cortile un’estensione delle loro funzioni dando un motivo per essere usati, portando la gente fuori. Che è esattamente quello che abbiamo fatto col mercato: abbiamo abbattuto il muro aprendo il mercato verso l’esterno, rovesciando la sua struttura che era introversa.
L’altro punto fondamentale è il parco: dove sono presenti il mercato comunale, la biblioteca e la casetta verde (sede delle associazioni e dell’orto comunitario). Il mercato, quando siamo arrivati noi, dava il suo fronte su via Lorenteggio che è attualmente chiusa per via dei lavori di potenziamento della linea metropolitana M4 e il suo retro sul parco. Quello che noi abbiamo fatto è stato letteralmente ribaltare la situazione: abbiamo aperto una porta sul parco ( a sud) permettendo di illuminare molto di più il mercato e creando delle connessioni con le altre realtà esistenti, quindi la biblioteca e la casetta verde.

Un’altra delle nostre idee era quella di creare delle aree private e di pertinenza del singolo caseggiato, quindi: una sorta di estensione del balcone e creando per ogni ingresso, corpo scala uno spazio per la spazzatura perché, ad oggi, i cortili sono usati più come centro di raccolta rifiuti che altro.

Needle: Dal punto di vista della partecipazione, come avete coinvolto gli abitanti? Con che strumenti?

Francesca: La partecipazione in questo senso l’abbiamo fatta e soprattutto anche col caffè di pomeriggio a casa di uno e la sera a chiacchierare a casa di un altro. Poi, comunque, l’architetto si fa delle idee, però arrivare lì con un progetto calato dall’alto è sbagliato. Intanto, tu progettista se vuoi fare una cosa così piccola e che funzioni devi sapere quali sono i problemi, i desideri e come vorrebbero i loro spazi del quartiere. Per esempio, in uno degli incontri che abbiamo fatto coi cittadini, abbiamo appeso un cartellone diviso in tre colonne: com’è? Come lo vorresti? Come credi che si possa fare? Cercando dunque di metterli subito in una chiave propositiva. Chiacchierando e segnando gli spunti su dei post-it, “mappiamo” la chiacchierata così da ottenere degli indicatori che rispondono ai vari progetti. Per esempio, era fortissimo il desiderio di limitare l’introversione fisica del mercato che non risponde al fortissimo legame che c’è invece col quartiere.

La partecipazione per noi era dialogo: abbiamo per esempio lasciato questo volantino diviso in tre in cui l’idea era “senti, io te lo lascio per una settimana: qualsiasi idea o suggestione ti viene in mente segnala” e poi dopo una settimana li abbiamo raccolti. Quindi c’era anche l’idea che non fosse immediato, ma lasciando del tempo per riflettere. Poi è importante che sia molto sul colloquiale.

Poi viene elaborato il progetto: progetto che non è la soluzione. Questo viene revisionato con loro: tu come architetto mostri come hai reinterpretato i loro suggerimenti, se la cosa convince o non con convince e se può funzionare far valendo comunque le tue ragioni.

Needle: a questo proposito, noi facciamo sempre fatica a capire qual è il limite tra la partecipazione degli abitanti nel lavoro dell’architetto. Voi come lo avete gestito?

Francesca: La partecipazione è un aiuto, ma non può contare di più. Il lavoro dell’architetto quando fa partecipazione all’inizio è subordinato: l’architetto si fa da parte e ascolta. Poi però, ecco, tu vai dal medico e gli dici “Caspita, ho mal di pancia, vorrei questa medicina” il medico ti visita, ti controlla la pancia, non certo la gola, però se poi lui deduce che ciò che ti serve è un’altra medicina perché sei intossicato è così. Perché comunque è lui che è l’esperto. È vero che l’architettura per il sociale passa per i cittadini, però è pur sempre architettura. In tutto ciò comunque, tu non puoi proporre un progetto che loro non si sentono, deve comunque venire dal quartiere. Bisogna essere mediatori, un lavoro condiviso con continui riscontri perché richiede tempo, dovendo acquistare credibilità come persona: perché molti sono arrivati promettendo di migliorare la situazione, ma poi invece non hanno fatto nulla.

Il nostro progetto era molto condiviso, tuttavia alla fine la piattaforma che abbiamo lasciato è un piccolo segno che purtroppo non risolve quelli che sono i grossi problemi del quartiere, ma indica una via per la sua rigenerazione.

(Cover image courtesy of G124 Milano Giambellino)